Il doping: una pratica antichissima
Il doping è una pratica antichissima. Sin dai primi giochi olimpici, venivano preparate strane pozioni utilizzate da parte degli atleti per avvertire un maggior stimolo a competere e a vincere. Inoltre, sebbene non sia dato di sapere esattamente di quali sostanze si trattasse, è noto che anche ai marinai olandesi che navigavano sui velieri venivano somministrate particolari bevande quando il tempo volgeva al brutto, in modo da affrontare più coraggiosamente la tempesta: queste sostanze si chiamavano appunto “doop”. Da “doop” si è arrivati nel Novecento al verbo inglese “to dope” e al sostantivo “doping” che indica una sostanza che modifica il rendimento. Soltanto sul finire dell’Ottocento sarà possibile trovare sostanze con vere e proprie caratteristiche farmacologiche, come l’etere e la cocaina, anche se tutt’oggi rimangono ignoti tempi e dosaggi per un’assunzione non letale (1).
Ma quali sono le ragioni per cui oggi si ricorre effettivamente al doping? C’è il caso dell’atleta che pur avendo avuto successi sportivi, con l’età, ha un calo delle prestazioni e allora fa ricorso a sostanze. C’è poi il caso del medico che ha un comportamento eticamente scorretto o che semplicemente rimane involontariamente coinvolto in un fatto costituente reato.
Inquadramento normativo del fenomeno
Essenzialmente il doping è definito nella nota Legge di riferimento n. 376 del 14 dicembre 2000 intitolata “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping” come:
- somministrazione o assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e adozione o sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti;
- somministrazione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e adozione di pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, finalizzate e comunque idonee a modificare i risultati dei controlli sull’uso di farmaci, sostanze e pratiche prestabiliti (2).
Questa seconda definizione è molto importante, in quanto evidenzia che non è pratica dopante soltanto quella che consiste nell’assunzione di una sostanza e di un farmaco che consenta di alterare la prestazione agonistica, ma anche l’assunzione di sostanze o la pratica di un metodo che serva ad eludere il controllo, facendo quindi riferimento ai cosiddetti agenti mascheranti.
Nel corso degli anni la scienza ha fatto passi da gigante nel campo della farmacologia e della medicina tanto da arrivare al punto che, effettivamente, oltre alle tradizionali sostanze cd. dopanti, è sempre più frequente il ricorso a farmaci in grado di mascherare la presenza di sostanze proibite nell’organismo umano, con tutte le conseguenti difficoltà in capo agli addetti ai lavori.
Le sostanze biologicamente e farmacologicamente proibite possono essere classificate in tre principali categorie:
a) farmaci di per sé non vietati in quanto non considerati come doping, ma utilizzati per scopi diversi da quelli autorizzati, i cd. “off label”;
b) farmaci vietati in quanto considerati come doping; e
c) integratori alimentari e prodotti cd. “salutistici” utili per reintegrare le perdite di macro e micronutrienti, tra cui integratori di origine glucidica (diidrossiacetone fosfato), lipidica (acidi grassi omega 3), proteica (L-carnitina, creatina, lisina), vitaminica (B6, B12, E, C, beta-carotene), minerale (boro, fosfati), estratti di piante (polline d’api, ginseng) e prodotti di altra origine (alcool, caffeina, coenzima Q10) (3).
I principi attivi banditi, nonché le sostanze soggette a particolari restrizioni d’uso, sono elencati nella lista di riferimento, la cosiddetta Prohibited List, redatta ed aggiornata con periodicità almeno annuale dall’Agenzia Mondiale Anti-Doping (World Anti-Doping Agency, WADA) e recepita in Italia sia dal Ministero della Salute che dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) (4).
Ma diamo ora uno sguardo alla terza categoria: gli integratori alimentari.
Partendo dal presupposto che i prodotti in questione debbano essere sempre dotati del requisito fondamentale di “sicurezza”, intesa come certezza che la produzione sia avvenuta secondo norme di buona fabbricazione, a garanzia della corrispondenza della composizione a quanto dichiarato in etichetta, in alcuni casi si incorre in doping, sia pure involontario, semplicemente per una conoscenza superficiale delle caratteristiche del prodotto assunto. Molto comune infatti, è l’erronea convinzione che l’origine naturale delle matrici utilizzate valga a garantire automaticamente l’assenza di contaminanti costituiti da principi attivi vietati.
Per citarne alcuni, diffusi sono gli integratori a base di guaranà, noce di cola e tè verde, contenenti caffeina, che sebbene sia esclusa dalle sostanze vietate, rientra nel Programma di monitoraggio delle autorità anti-doping. È stato perfino riportato che il polline del pino scozzese, al pari di altre piante o semi, può contenere tracce di androstenedione, un pro-ormone androgeno, precursore del testosterone (5).
Ripercussioni legali per il medico
Il medico riveste senza dubbio un ruolo sociale determinante circa l’attività di costante attenzione rivolta ai pazienti, sia circa il sancito divieto di prescrizione, somministrazione o consiglio di trattamenti vietati, ma anche per quella costante attività di indirizzo verso una cura dell’organismo (rivolta in particolar modo verso i giovani che si avvicinano ad attività sportive, con la spinta a “bruciare le tappe” ed utilizzare pratiche non consentite, spesso prendendo come metro di paragone prestazioni estreme di atleti famosi).
È chiaro che l’assolutezza del divieto di determinate sostanze e metodi, con la conseguenza che l’uso, ovvero il possesso di determinate sostanze, non solo limitatamente al momento della competizione, ma anche al di fuori delle attività competitive, rappresenti una chiara violazione in termini sanzionatori.
Nel nostro Ordinamento si è posta particolare attenzione alla lotta contro il doping sia nel Codice di Deontologia medica che con la già citata Legge n. 376 del 2000.
In particolare, il Codice di deontologia professionale prevede espressamente che «Il medico non consiglia, favorisce, prescrive o somministra trattamenti farmacologici o di altra natura non giustificati da esigenze terapeutiche, che siano finalizzati ad alterare le prestazioni proprie dell’attività sportiva o a modificare i risultati dei relativi controlli. Il medico protegge l’atleta da pressioni esterne che lo sollecitino a ricorrere a siffatte pratiche, informandolo altresì delle possibili gravi conseguenze sulla salute» (6).
Pertanto, ove il medico decida di porre in essere prescrizioni o somministrazioni vietate, non potrà invocare alcuna esimente circa la propria responsabilità nel caso di rilascio da parte del soggetto “consapevole” di una qualche forma di consenso informato.
Si ricorda che tali disposizioni non sono applicabili alla categoria degli integratori, in quanto ancora soggetti ad una regolamentazione in fase di divenire sia in termini di demarcazione rispetto ai farmaci in riferimento alla loro interazione nel corpo umano che per quanto attiene alla responsabilità di chi è del settore. Sono infatti diversi i professionisti che ruotano intorno al concetto di doping: il farmacista, che può ritrovarsi a distribuire irregolarmente, ma anche il procacciatore, il custode, il distributore e l’eventuale importatore, i quali potrebbero incorrere in “sole” pene detentive e pecuniarie.
Conclusione
È evidente che il fenomeno della somministrazione di integratori in ambito sportivo sta assumendo carattere sempre più evidente. Poiché nei riguardi dell’uso di sostanze vietate nel mondo dello sport è stata prestata molta attenzione mediante il riconoscimento della rilevanza penale del doping, è auspicabile lo stesso nei confronti degli integratori, sia in riferimento ai dosaggi che all’eventuale contaminazione con principi attivi vietati. Si ricorda che non è la sostanza in sé che fa il doping, ma è l’uso che se ne fa: il tentativo di alterare mediante tali sostanze le performance degli atleti.
Come già ricordato, sono diversi gli operatori sanitari che possono essere coinvolti in tale frangente, pertanto sarebbe all’uopo provvedere ad una normativa più stringente, che impedisca possibili abusi a danno del paziente, confidando altresì in un intervento del Ministero della Salute e tutti gli Organi di vigilanza interessati ad aumentare l’attenzione con cui sorvegliano queste nuove delicate categorie di prodotti.
Bibliografia
(2) Ministero della Salute, Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive, “Manuale di formazione – La tutela della salute nelle attività sportive e la prevenzione del doping”.
(2) Legge n. 376 del 14 dicembre 2000 “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping”, art. 1, co. 1-2.
(3) M. Giampietro – G. Gagliardi – S. Beraldo, “Alimentazione e Sport”, disponibile online all’indirizzo www.sinu.it.
(4) Legge n. 376 del 14 dicembre 2000, cit., art. 2 e R. Gagliano Candela – G. Di Vella, “Il doping”, in A.A.V.V., Manuale di medicina legale, a cura di L. Palmieri – F. De Ferri, Milano, 2013, p. 438.
(5) L. Caprino, M.C. Braganò e F. Botrè, “Gli integratori fitoterapici nello sport: uso ed abuso”, Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, 2005; 41(1):35-38.
(6) Codice di deontologia medica, FNOMCeO – Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri, capo II, art. 76.